Piero Radin, sono solo 80


Pierino in montagna

Sono solo 80! Piero Radin, l'indomabile.

Compie gli anni, oggi 22 novembre, uno dei membri che hanno dato più lustro in questi anni al Gruppo Rocciatori Renato Casarotto: Piero Radin.
Piero (Pierino per gli amici) compie oggi 80 anni ma sembra non sentirli.

La sue imprese hanno fatto la storia dell'alpinismo negli ultimi anni.
Il Gruppo vuole ricordarlo con un'intervista a lui dedicata (curata da Martina Guglielmi) e ringraziarlo per il contributo, l'esperienza ma, soprattutto...

l'esempio che ha saputo dare a tutti quelli che praticano l'alpinismo e l'arrampicata su roccia in particolare.

Pierino Radin in arrampicata

Grazie Piero e 100 di questi giorni.



Segue l'intervista che potete trovare in pdf qui.

Intervista all'uomo e all'alpinista.


Per me arrampicare in montagna è seguire l'andamento della vita.

Gli alpinisti arrampicano e vivono la montagna.
Tra loro c'è chi lo racconta con parole e immagini, in libri e conferenze.
Altri lo fanno in silenzio e le loro esperienze diventano semplicemente risposte alle domande che la gente fa.
Ecco, questo è il caso di Piero Radin, un alpinista dalle tante avventure, ad alte e basse quote. Un uomo che oggi ha baffi e capelli bianchi, due vivaci occhi verdi, un corpo esile dalla forza prorompente. Una persona gentile, con grinta e coraggio nascosti dietro simpatia e umiltà. Uno scalatore che a ottant'anni ha osservato, letto, salito e amato chilometri di pareti.

Voglio iniziare con una semplice domanda: chi sei?
Piero Radin, uno qualsiasi (ride)! Perchè quello che ho fatto mi è sempre venuto spontaneo. Sapevi che suonavo la chitarra?

No, racconta!
Quand'ero giovane mi piaceva la ginnastica artistica con i suoi salti mortali. Poi ho iniziato a suonare la chitarra con degli amici e insieme abbiamo formato un complesso, i Duca D'Este, fino a quando ho compiuto 25 anni. È stato un bel periodo.
Nel frattempo ho conosciuto due ragazzi più giovani di me, Casagrande e Ciscato, che mi hanno chiesto di andare in montagna con loro.
Ho accettato e siamo andati sulle Piccole Dolomiti: non le conoscevo se non per qualche camminata che ho fatto con mio fratello.
Abbiamo parcheggiato l'auto e ci siamo incamminati verso il Campanile Val Fontana d'Oro. Arrivati sotto la parete, abbiamo deciso di fare la via normale, ma quando i due si sono trovati davanti al quarto grado, si sono tirati indietro e allora ho detto 'provo io'.
Ho iniziato così a scalare e quel giorno sono anche sceso per la prima volta con le corde doppie.
È nata da lì la mia passione per la scalata.
Poi ho conosciuto Renato Casarotto in Gogna: mi ricordo che quel giorno gli dissi 'però, sei bravo ad arrampicare' e lui mi rispose 'aspetta ad avere la mia età!'.
Gliela chiesi: aveva quattro anni meno di me (ride)!


Com'è stato il tuo primo approccio all'arrampicata?
A tentativi! Pensa che io, Casagrande, Ciscato, Campi e Gianpaolo Casarotto abbiamo impiegato un'intera giornata a salire la Carlesso al Baffelan - negli anni '70 era tra le più dure per noi, che ancora scalavamo con gli scarponi -. Non sapevamo dove andare e proseguivamo per tentativi. Ne abbiamo fatte di tutti i colori, ma c'erano coraggio e volontà dentro di noi.

Quando hai iniziato ad arrampicare sul serio?
Era il 1972, avevo 28 anni. E nel '74 siamo andati a scalare lo Spigolo Strobel in inverno. Ricordo che prima, per mettermi alla prova, Renato Casarotto aveva portato me e Diego Campi a fare lo Spigolo Boschetti-Zaltron (all'epoca veniva ripetuto una volta all'anno) con la variante Timillero, quella del tetto da passare con le staffe.
Bene, quella volta io ero l'ultimo a salire e in quel tratto persi la staffa. Renato mi disse che l'unica soluzione era mollarmi e salire con il nodo prusik: feci un pendolo
che ricordo bene ancora oggi!


Piero, chi è l'alpinista?
Per me un alpinista è una persona che innanzitutto ha voglia di fare avventure. E arrampicare, certo, ma soprattutto esplorare, cercare, farsi ispirare dall'incognito.
Oggi secondo me l'alpinismo in alcuni casi è un po' come il minestrone: ha dentro tanti ingredienti, ma se inizi a toglierci la pasta perchè non la digerisci e i fagioli perchè non ti piacciono, cosa resta? Acqua calda! Capisci cosa intendo? Se nell'alpinismo inizi a togliere l'esplorazione perchè è tutto già scritto, l'incognita perchè può creare situazioni rischiose e altri elementi, allora cosa rimane?
Ci sono ancora moltissimi bravi alpinisti come un tempo, ma tanti altri cercano gli spit, l'ambiente sicuro, la relazione scritta nei dettagli.
Ai miei tempi spesso sapevamo solo dove fosse l'attacco della via - che era comunque difficile da trovare - e poi salivamo alla scoperta. Questa è avventura!


È cambiata la testa?
Oggi nella maggior parte dei casi si vuole tutto programmato e sicuro.
Ma le occasioni di vivere avventure non mancano, basta volerle cogliere e avere la testa, il carattere, l'anima per farlo.


E tu che carattere hai?
Io sono uno solitario: mi piace la compagnia, ma spesso preferisco stare per conto mio. Soprattutto non amo essere 'inquadrato'. Ma essere inquadrati, in fin dei conti, è la morte dell'alpinismo! Basta solo che si raggiunga l'omologazione anche in montagna, dove tutto è perfetto, sicuro, programmato e con un prezzo, perchè l'alpinismo puro svanisca.

Piero, dimmi una cosa: durante le tue solitarie, come stavi? Com'è la solitudine in montagna?
Bellissima: vivi completamente la montagna, perchè sei solo tu e lei.
Prima della spedizione in Annapurna, scalai in solitaria la Vinatzer in Marmolada, nel '77.
La sera mi trovai a un tiro di corda dalla cengia, ma non conoscendo la via, decisi di bivaccare in una piccola grotta: ricordo una notte illuminata dalle stelle che mi fece venire i brividi.
Sono sensazioni che provi quando vivi l'avventura: per me questo è alpinismo.
Il giorno dopo arrivai in vetta. Ricordo che in solitaria ho salito anche il Camino Carlesso e mi sono divertito tanto.
Una solitaria prima o poi tutti dovrebbero farla!


Qual è stata l'avventura alpinistica che più ti è rimasta impressa nella memoria?
L'invernale allo Strobel mi ha segnato parecchio, ma sicuramente l'apertura del Diedro Casarotto-Radin, insieme a Renato, rimane dentro di me come una delle più belle esperienze della mia vita in montagna.

Ti va di raccontarmele entrambe queste avventure?
La salita dello Spigolo Strobel in inverno è durata tre giorni. Ricordo che quando siamo tornati, io sono stato in mutua per quindici giorni e Diego Campi, allora sedicenne, si è fatto ricoverare al Lago di Garda per recuperare le forze. Scalare in inverno significa iniziare alle 8 della mattina circa, quando il cielo schiarisce, e finire verso le 17, quando inizia a calare il buio: questo comporta il passare dodici o tredici ore, magari su una cengia scomoda, a bivaccare al freddo della notte.
Aggiungi anche gli scarponi e i vestiti pesanti: arrampicare con questi su una via di 600/700 metri, di VI/VI+, non è semplice.
Abbiamo fatto tre bivacchi.
Quando siamo scesi in doppia, ricordo che si era bloccata una corda, quindi Renato chiese a me di risalire per risolvere il problema. Affidai il mio zaino a Diego: lui era talmente stanco e con la testa confusa che perse il mio zaino con sacco a pelo e tutto il resto. Abbiamo continuato e bivaccato ugualmente. Non potevamo fare altro! (ride)
E sai perchè ci tenevo a fare questa invernale? Perchè leggevo a quel tempo le avventure di Bonatti in inverno e volevo provare anch'io quelle sensazioni! Ma un conto è farlo sul divano di casa e un'altro paio di maniche è trovarsi in parete, al freddo!


E il Diedro Casarotto-Radin?
Con Renato non ho mai fatto cose facili. Quelle sì che erano avventure!
Su quelle montagne ci vuole 'voglia di andare'. E quando Renato aveva un obiettivo, nessuno poteva fermarlo. Il Diedro è stato duro. Io ero secondo di cordata, ma non mi interessava: ci tenevo a salire con lui quella meravigliosa parete sulle Pale di San Lucano. E l'ho fatto.


Qual era e qual è ancora oggi il tuo animo quando vivi la montagna?
C'era la voglia. Di alpinisti, in primis Renato, che mi hanno ispirato e dato una spinta verso la scalata ce ne sono stati, ma la miccia si accende dentro di noi.

E poi ci sono state le avventure nelle montagne più alte!
La mia prima spedizione è stata in Perù sul Huandoy Sud, organizzata da Zonta. Ricordo che per alcuni avvenimenti durante la salita, arrivai in cima da solo: è stato grandioso osservare dall'alto tutte quelle montagne che sembravano tanti Cervino. Mi hanno detto che fu la prima italiana.
Be', non importa: è stata un'esperienza magnifica.


Piero, parlami dell'Annapurna.
Siamo andati a fare la normale: c'era un crepaccio dietro l'altro. Siamo saliti e dall'ultimo campo dovevamo percorrere un canalone, una cresta e poi saremmo stati in vetta. Sapevamo che le difficoltà le avremmo trovate durante la discesa. Io e Giorgio Brianzi partimmo. Le guide alpine prima di noi salirono alla vetta e li vedemmo passare durante la discesa, ma una delle due cadde: fece un volo di 600 metri.
Venimmo a conoscenza dell'accaduto solo al nostro ritorno al campo base. Ignari salimmo, raggiungemmo la vetta e ritornammo. Eravamo stanchi e la pendenza era di circa 60 gradi.
Io ero il primo di cordata: mi calai e arrivai a un breve traverso, che anticipai piantando un chiodo nel ghiaccio - uno di quelli che somigliano a un cavatappi -. Passai e mi fermai per fare sicura al mio compagno: avevo solo un chiodo tubolare, quindi decisi di risparmiarlo e recuperare utilizzando la piccozza.
Giorgio arrivò vicino al chiodo e scivolò poco prima. Siamo volati entrambi e ci trovammo appesi all'unico chiodo che avevo piantato.
Io persi zaino e guanti, e presi una forte botta al ginocchio, che non mi permetteva di muovere la gamba. Pian piano riuscimmo a scendere fino a un punto in cui gli altri ci videro e iniziarono a calarmi in doppia prima che imbrunisse. Mi diedero i guanti, ma avevo già la mano bianca e non sentivo più le dita.
Dormimmo nel sacco a pelo in un punto che sembrava più comodo e il giorno dopo continuò la discesa: pesavo poco per fortuna, ma calarmi non fu comunque facile e per scendere al campo base impiegammo sette giorni.
A Vicenza andai all'ospedale: la gamba aveva un osso rotto, ma nulla di grave. Erano le dita quelle messe peggio: le prime falangi nere erano la conseguenza del congelamento.
Per un anno le curai e infine i medici mi dissero che non avrei più potuto arrampicare. Ma ovviamente non li ascoltai! Sapevo che con tre falangi in meno di una mano avrei avuto qualche difficoltà in più, ma nonostante questo arrampico ancora oggi.


Come vivevi il rapporto con tua moglie e con i tuoi cari, quando partivi per fare le tue scalate o le spedizioni e restavi fuori per più giorni?
Una volta non c'erano i cellulari, non potevi essere sempre in contatto con loro!
Mi è stato raccontato che quella volta dell'Annapurna mio fratello stava lavorando in fabbrica, quando trasmisero per radio la notizia di un incidente durante la spedizione e parlavano di un morto e un ferito. Allo stesso tempo riferirono anche i nomi, tra cui il mio. Pensa che per giorni la mia famiglia non ha saputo nulla delle mie condizioni, finchè siamo arrivati nella prima città, dove ho potuto contattare casa. Capisco quanto i miei cari siano stati in pensiero, ma era quella la mia vita!


Hai fatto di recente un'altra spedizione. Che cambiamenti hai notato lassù?
In Annapurna sono stato nel '77 e l'ultima spedizione che ho fatto è stata nel 2002 o 2003: era tutto un altro mondo. C'erano corde fisse ovunque.
Il campo base era pieno di gente e moltissimi non sapevano nemmeno indossare i ramponi. La maggior parte delle persone va per poter dire di essere stata su un 8mila, ma secondo me non saprebbero neanche scalare il Baffelan.


Hai mai avuto paura, Piero?
Certo, la paura ce l'hai sempre. Soprattutto la notte prima della salita. È una paura, però, che riesci a controllare, altrimenti è meglio che resti a casa. Ricordo l'esperienza sulla nord del Cervino: eravamo io, Giacomo Albiero e Luciano Sartor. Al rifugio da dove siamo partiti la mattina c'erano dei bergamaschi che parlavano in continuazione della salita. Noi abbiamo pensato che fossero forti e li seguimmo. Purtroppo sbagliarono via e mossero roccia che scendeva su di noi come grandine. Loro si ritirarono. Eravamo ormai fuori via e pensavamo di fare lo stesso, ma sotto di noi c'erano centinaia di metri e rischiare di ritirarci - eravamo anche senza piccozze - sarebbe stato rischioso. Proposi una traversata per raggiungere la via normale. Dal ricongiungimento ci separava una placca di granito di almeno 50 metri.
Siamo andati avanti ed è stato uno di quei momenti in cui dovetti controllare la paura per non entrare nel panico. In montagna il pericolo c'è sempre, bisogna esserne consapevoli.
In fin dei conti, se non ci fosse la forza di gravità, chi andrebbe ad arrampicare?


C'è mai stato un momento in cui hai pensato di smettere di arrampicare?
No, credo mai. Essere stanco morto e non vedere l'ora di tornare a casa, quello sì, l'ho provato e pensato. Ma smettere no!

Come capisci quando è il caso di fermarsi e tornare indietro?
Se la parete non è nelle condizioni o se non hai la giornata giusta, è meglio tornare indietro. Ma sai cosa ti dico? Tutte le volte che sono rientrato è stato a causa del cattivo tempo, non perchè non fossi in grado di fare una via. E sai perchè? Quando puntavo una salita, mi allenavo bene per farla, al punto di essere certo che avrei potuto superare le difficoltà della parete. Puntare troppo in alto no, questo non va bene, perchè in montagna l'irresponsabilità e la presunzione le paghi.
Ricordo quella volta con Gemo sulla Cassin al Grandes Jorasses: era la terza volta che provavo a salirla e con lui siamo arrivati a 800 metri di altezza con quattro bivacchi in parete. Siamo saliti il primo giorno fin sotto la fessura e poi iniziò a nevicare, quindi passammo la notte al gelo fino alla mattina, quando riuscimmo a passare le varie difficoltà fino a un punto in cui riprese il brutto tempo. La mattina seguente era tutto bianco: la mia mano sanguinava e dovetti salire da secondo dopo Gemo, che riuscì a fare un tiro sulla placca in due ore e mezza. Riprese ancora a nevicare, bivaccammo e il giorno dopo dovemmo scendere: furono 800 metri di doppie, dalle 8 della mattina alle 21.
Con il buio finalmente mettemmo piede sul ghiacciaio. Il giorno dopo fu una giornata splendida, anche questa è la montagna!


Piero, chi è per te un compagno di cordata?
Soprattutto su certe salite, quelle più difficili e che magari prevedono l'eventualità di bivaccare, bisogna andare d'accordo con il compagno di cordata. Deve crearsi sintonia, ci si deve incitare a vicenda, bisogna sostenersi nei momenti duri. E la fiducia è fondamentale. Ad esempio con Renato mi sono trovato benissimo.

Cosa ti è mancato di più di Renato Casarotto?
Negli ultimi anni ci eravamo un po' persi di vista, perchè lui era diventato un professionista e spesso andava in spedizione. Ma di lui ho un bellissimo ricordo ed è stato uno dei migliori compagni di cordata. E poi Renato saliva ovunque, era impressionante vederlo arrampicare.

Per arrivare alla cima si è pronti a tutto?
Ti faccio un esempio: ho fatto cinque o sei spedizioni nella mia vita e alla cima sono arrivato solo in due. A volte per il meteo, altre volte perchè uno o più dei miei compagni non ce la facevano per diversi motivi: sono sempre tornato indietro, senza rimorsi nè rimpianti. La vita è più importante dell'orgoglio, la tua e quella degli altri.

Torniamo con i piedi per terra ed entriamo nel CAI, anzi, nel CAAI, il Club Alpino Accademico Italiano. Come ti hanno chiesto di entrare?
Fina e Franzina, due accademici, hanno visto la mia attività in montagna e mi hanno detto 'perchè non entri nel CAAI?'. Io nemmeno ci pensavo, ma ho accettato di fornire tutte le informazioni su quel che ho fatto in montagna e i nomi dei miei compagni di cordata. Così diventai accademico.

Com'è oggi, a 80 anni, l'alpinista Piero Radin?
(Scoppia a ridere) Ah, io mi piaccio anche oggi! Sono più stanco, ma arrampico ancora e mi diverto. Salgo vie non troppo lunghe e di massimo settimo grado, al mio ritmo: vado più lentamente, ma mi piace, perchè percepisco meglio i movimenti, senza cercare la performance.

Hai qualche segreto?
No, no, nessun segreto. Il bello è la spontaneità. Di aspiranti alpinisti ne ho visti tanti, anche quando insegnavo ai corsi, ma dopo pochissimo tempo lo vedi chi può diventare davvero un alpinista e chi non è portato.
Lo capisci subito chi ha talento e a chi i movimenti nascono spontanei, chi ha la testa per crescere e affrontare certe sfide. Uno può allenarsi anche ogni giorno, ma se non è portato per l'alpinismo, si nota dall'inizio.


Piero, nell'alpinismo quanto conta la testa?
Lo diceva anche Bonatti: la testa vale oltre il 50% rispetto all'allenamento fisico. Pensa solo stare in parete più giorni, magari al freddo, bivaccando in posti assurdi: in quei momenti se non hai testa, sei perso!

E obiettivi per il futuro ne hai?
Mi piacerebbe tornare a ripetere il Diedro Casarotto-Radin, ma la vedo dura! (Ride)

Cosa ti ha regalato la montagna?
Bei ricordi. Inoltre è un'esperienza generativa: quando torni a casa dopo un'avventura in montagna, apprezzi di più quello che trovi e ciò che hai. E poi spezza quella monotonia della quotidianità. Nella vita devi essere come un bicchiere, sempre pieno, e la montagna, quando vivi davvero una salita, è così che ti rende. Pieno di una ricchezza che la natura, lo stimolo, l'adrenalina, la soddisfazione ti danno.

Che consigli daresti a chi vuole iniziare a scalare?
Intanto di non avere in mente solo il grado, ma di coltivare la passione per la montagna. Consiglierei di iniziare con le camminate, per conoscere i sentieri, la roccia, le condizioni, per sapersi orientare. Oggi vedo molti scalatori che quando vanno in montagna per salire vie, non hanno l'occhio, non sanno leggere la parete. Se uno vuole fare arrampicata sportiva, va benissimo allenarsi in palestra. Ma se uno vuole scalare vie, è in montagna che deve prepararsi. In palestra e in falesia alleni il movimento e molti altri aspetti, non ti abitui all'ambiente, che devi saper vivere, comprendere e rispettare.
Livanos spesso partiva al pomeriggio per affrontare una salita con l'obiettivo di bivaccare, perchè diceva che se non ci bivacchi dentro la montagna, non te la vivi abbastanza.
Sento anche chi su una via fa i tiri più duri e poi scende tralasciando quelli più semplici: ma che senso ha non finire una salita? Questo non è alpinismo, è solo voler mettersi alla prova nei tiri più duri.


È importante conoscere la storia dell'alpinismo?
Sì, ho letto molto sulla storia. Penso che tanti giovani - e non solo - non sappiano nemmeno chi è Cassin, ad esempio. Oggi hanno Ondra o altri arrampicatori come modelli, quelli che seguono nei social e vedono nel web, Una volta avevamo Comici, Cassin, Gervasutti, Vinatzer, Maestri, Casarotto, Massarotto, Cozzolino e tanti altri come miti.
E poi una volta i libri erano davvero interessanti e coinvolgenti: da come le raccontavano pareva facessero imprese grandiose, erano storie scritte realmente accadute. Sai, quando sali una via, la storia è parte integrante dell'esperienza. Per non parlare di molte vie aperte in un modo straordinario, come quella sulla Tofana di Rozes, la Paolo VI: ora direbbero 'mamma mia che chiodi' e invece è da ammirare come sono stati messi, un capolavoro! Toglierli sarebbe come rovinare un quadro.
Dobbiamo solo contemplare come gli apritori sono saliti, anche in artificiale, e siano riusciti a piantare i chiodi, cercando e trovando soluzioni spesso originali. Ricordiamoci che lo spit lo pianti dove e quando vuoi, i chiodi no.


Come vedi l'alpinismo del futuro?
Non saprei rispondere. Vedo davanti a me una società che spesso tende a inquadrarti, a farti pensare in un certo modo. C'è anche sempre più diffidenza. Quando arrampico, lo faccio perchè mi piace, perchè sto bene, non per dimostrare qualcosa agli altri o perchè la moda mi dice di farlo. Sai una cosa? Se rinascessi, mi piacerebbe essere un gatto: questo animale mi è proprio simpatico, perchè se vuole risponde ai tuoi inviti e ti salta in braccio, se non vuole, se ne va. Il gatto è indomabile, fa quel che vuole.
Seguire l'andamento della vita: la montagna te lo insegna e anche questo è libertà.


Piero Radin in traversata su roccia

Avventura, introspezione, coraggio, resistenza, bellezza, spontaneità, storia, la montagna ha molteplici chiavi di lettura. La più importante è la nostra, quella che scegliamo per scalarla. E arrivare in cima, mi raccomando! Il pensiero di Piero l'abbiamo riportato qui, semplicemente come risposte alle domande che gli abbiamo fatto. Ma siamo certi che c'è molto altro da scrivere. Magari non nero su bianco, ma in quel cielo trapunto di stelle che sa come mantenere un segreto.
Grazie Piero e buon futuro! In fin dei conti sono solo 80!



Articolo tratto da: Gruppo Rocciatori Renato Casarotto - http://www.grupporocciatorirenatocasarotto.it/
URL di riferimento: http://www.grupporocciatorirenatocasarotto.it/index.php?mod=read&id=1700631500